Everything everywhere all at once (2022)

di Dan Kwan e Daniel Scheinert

con Michelle Yeoh, Stephanie Hsu, Jamie Lee Curtis, Ke Huy Quan, James Hong

 

Il confine tra un’opera geniale e la fantozziana “cagata pazzesca” è spesso molto labile. Come nel caso di molti altri film candidati agli Oscar 2023, anche per Everything everywhere all at once si sono sprecati i peana e i premi. Siamo dunque di fronte al film che attesta il genio della coppia di registi Dan Kwan e Daniel Scheinert? A mio modesto parere, no. Perciò non resta che etichettarlo come… Ma procediamo con ordine.

Evelyn Wang (Michelle Yeoh) è un’indaffarata immigrata cinese a cui sembra costantemente mancare il tempo, tra la gestione della sua lavanderia a gettoni, la cura del padre anziano e le interazioni con un marito con la testa tra le nuvole (Ke Huy Quan) e con la figlia adolescente e gay (Stephanie Hsu). Durante un colloquio all’agenzia delle entrate con una funzionaria (Jamie Lee Curtis) succede l’inaspettato e Evelyn viene a conoscenza dell’esistenza di centinaia di realtà alternative a quella che sta vivendo. In una sorta di fusione tra il multiverso e il mondo di Matrix, la donna si troverà a dover “viaggiare” tra le sue realtà, anche molto diverse l’una dall’altra, in modo da “pescare” le abilità che le serviranno per impedire che tutti questi “versi” collassino.

E qui Everything everywhere all at once parte per la tangente, buttando qualunque cosa nel calderone, facendoci vivere con Evelyn e la sua famiglia una ridda di situazioni scollegate e assurde, il più delle volte studiate per dare vita ai classici e coreografici combattimenti tipici dei film d’azione di Hong Kong, Cina e Taiwan…

All’inizio la scelta incuriosisce, diverte perfino – in particolare per le azioni folli che i vari personaggi devono attuare per potersi spostare da un multiverso all’altro (da leccare il moccio, a pisciarsi addosso, a utilizzare un butt plug in modo… consono) – poi tutto tende a ripetersi. Con l’aggravante che chi guarda comincia a non capirci più nulla.

La sceneggiatura è talmente caotica e sconclusionata da non prendersi nemmeno la briga di offrire un minimo di coerenza o qualche appiglio a cui la mente del povero spettatore possa aggrapparsi. Questo nonostante, di tanto in tanto, partano dei lunghi spiegoni per cercare di fare capire a Evelyn (e a noi con lei), che cosa stia succedendo. Tutto vano.

Così si finisce per scollegare il cervello e fruire passivamente della baraonda, dei balletti, dei combattimenti, dei passaggi da un contesto all’altro senza più provare a capirci qualcosa.

Certo il montaggio, pur in una frenesia da mal di testa, è incredibile. Certo i due registi hanno inserito citazioni cinematografiche a bizzeffe – da Ratatouille a In the mood for love – ma quando puoi ignorare bellamente qualunque tipo di coerenza narrativa e ti giochi tutte le tue carte sull’impatto estetico della messa in scena, allora vale tutto.

Del resto, se i protagonisti, a seconda del multiverso, diventano ora sassi, ora persone con i wurstel al posto delle dita delle mani, ora pignatte e ora chef acrobatici – il tutto senza curarsi di un qualunque filo logico degli eventi – si può osare qualunque cosa.

Ulteriore e imperdonabile colpa di Everything everywhere all at once è quella di sequestrarci in questo marasma ipercinetico e sconclusionato per ben due ore e venti minuti, una durata non solo eccessiva ma persino controproducente, perché un film più breve avrebbe almeno potuto regalare qualche stupito e surreale momento di divertimento.

Così resta un supponente e indigesto esercizio di stile che fatico a comprendere come qualcuno possa aver trovato degno di nomination e di giudizi lusinghieri.

 

 

Voto: 4