Trama e recensione de L’uomo del banco dei pegni (The pawnbroker – 1964)

Regista: Sydney Lumet

Cast: Rod Steiger, Jaime Sanchez, Geraldine Fitzgerald, Brock Peters

L’uomo del banco dei pegni è un film complesso, stratificato, a tratti contraddittorio, che affronta uno dei temi più brucianti del Secondo dopoguerra: il trauma dei sopravvissuti all’Olocausto. Uscito nel 1964, fu accolto da molte polemiche, non tanto per la crudezza delle immagini, quanto per l’ambiguità ideologica che lo attraversa e per le sue scelte formali spesso dissonanti.

Il protagonista, Sol Nazerman (Rod Steiger), è un ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio che vive come usuraio in un quartiere nero di Harlem. Il suo banco dei pegni diventa così, non solo un luogo fisico ma un microcosmo dove convergono dolore, sfruttamento e disperazione. Nazerman è un uomo chiuso, emotivamente anestetizzato, che ha scelto di non sentire più nulla. Ma il passato lo bracca, riaffiora in flash improvvisi, come scosse elettriche che frantumano la sua corazza.

Il regista Sydney Lumet – autore di vere e proprie pietre miliari della storia del cinema, cominciando da quel capolavoro senza tempo de La parola ai giurati, passando per Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Il verdetto e Onora il padre e la madre – tenta un difficile equilibrio tra realismo urbano ed espressione degli stati d’animo del protagonista. La fotografia è volutamente grigia e piatta mentre il montaggio di Ralph Rosenblum introduce una nervosa frammentazione, con inserti quasi subliminali — brevi immagini dei campi di concentramento — che vogliono rifarsi alla lezione della Nouvelle Vague ma che spesso finiscono per apparire affettati e persino goffi. La giustapposizione tra Harlem e Auschwitz, tra drammi quotidiani e il ricordo dell’orrore assoluto, finisce a volte per risultare involontariamente grottesca.

Il film non si limita al tema della Shoah ma apre anche una riflessione sulla società americana dell’epoca: i conflitti razziali, la povertà urbana, l’emarginazione, il degrado morale. Si toccano anche la relazione vittima-carnefice, la questione della colpa, della salvezza, della possibilità o meno di perdonare o dimenticare. Ma tanta ambizione finisce con il soffocare la narrazione. Le tesi sono confuse, le metafore spesso forzate e la retorica morale non sempre ben calibrata.

Rod Steiger offre una prova d’attore che è al tempo stesso intensa e barocca. È un interprete “grande”, nel senso più letterale e fisico del termine: ingombrante, iperespressivo, a tratti fuori scala rispetto al contesto. Ci sono momenti in cui la sua performance sfiora il ridicolo involontario — come quando, decisamente troppo in carne per il contesto, si aggira tra i fantasmi di un lager — ma c’è anche un nucleo emotivo autentico nella sua recitazione, un dolore che traspare pur tra gli eccessi.

L’uomo del banco dei pegni è un film irrisolto, sbilanciato, anche se indubbiamente coraggioso. È una pellicola che mette molta, troppa, carne al fuoco e che paga il prezzo di scelte discutibili. Ma dietro le sue incongruenze formali e ideologiche si intravede un tentativo sincero — per quanto decisamente imperfetto — di interrogarsi sul male e sulla memoria, sul dolore individuale e collettivo.

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Voto: 5