Triangle of sadness (2022)
di Robert Ostlund
con Harris Dickinson, Charlbi Dean, Woody Harrelson, Dolly De Leon, Vicki Berlin
Un film che in realtà è come se fossero tre. Come gli angoli del triangolo (della tristezza) creato da Ruben Ostlund (regista mai banale di cui voglio ricordare Forza maggiore) e come le parti che dividono nettamente questa corrosiva visione della società di oggi.
A fare da trait d’union dei tre capitoli di Triangle of sadness – che poi per gli svedesi sarebbe quell’immaginaria figura geometrica che collega le sopracciglia e la base del naso – ci sono Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean), coppia di modelli e influencer, che prima vediamo litigare al tavolo di un ristorante, poi ospiti di una lussuosa nave da crociera e infine naufraghi su un’isola deserta.
Nel mezzo c’è letteralmente di tutto: milionari snob, un’arzilla coppia di venditori di armi, equipaggio accondiscendente all’inverosimile, un capitano (un grande Woody Harrelson) marxista e un oligarca russo capitalista. Solo per citarne qualcuno.
Sullo yacht tutto procede nel lusso e nell’illusione che tutto funzioni alla perfezione. Finché il mare in tempesta non sgretola la patinata (ir)realtà e scaraventa gli altezzosi miliardari nelle pozze del loro vomito e nel liquame delle latrine che si rovesciano.
E la caduta della high society può essere completa solo quando, i pochi sopravvissuti al naufragio – con i loro Rolex al polso e i conti alle isole Cayman a cui non possono più accedere – si ritrovano costretti a obbedire agli ordini di Abigail (Dolly De Leon), quella che, fino a poche ore prima, era la responsabile dei bagni della nave.
Ruben Ostlund punta dritto al cuore dei sedicenti valori che caratterizzano i nostri tempi – l’apparenza, il successo misurato a colpi di follower, il denaro (quello non passa mai di moda), lo status sociale e lavorativo – e prova a sovvertirli, scegliendo la strada dell’assurdo, dell’ironia corrosiva, dell’esagerazione.
Ci riesce? Non sempre. Il film viaggia tra molti alti e qualche basso, con la parte ambientata sull’isola in cui si perde l’incisività delle due precedenti. Qui il regista tira troppo la corda e fa capolino la noia, anche a causa di una durata di 2 ore e 27 minuti che appare esagerata. Per fortuna fanno da contraltare numerose scene che colpiscono nel segno, molte delle quali concentrate nell’episodio dello yacht.
Ben lungi dall’essere perfetto – spesso vi scoprirete ad aggrottare il vostro triangle of sadness – il film è comunque ottimamente girato, originale, corrosivo, tanto quanto allo stesso tempo talvolta verboso, macchiettistico e sbilanciato nell’eccessiva ricerca del sarcasmo e della critica sociale a tutti i costi. Ma merita comunque di essere visto.
Voto: 7
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